Il paese dei poveri di Ivano Mingotti è un romanzo di critica sociale, imperniato sul concetto di produttività, nonché una disamina, in un contesto distopico, del concetto dei lager e dei prigionieri.
In un mondo in cui l’economia e la produttività sono tutto ciò che conta, la popolazione è costretta a non essere povera: essere in miseria è un delitto, è rallentare la società, e dunque, per evitarlo, la società, sotto lo schermo dell’indifferenza dei suoi cittadini, interna in grandi istituti, chiamati ”paesi dei poveri”, coloro che vengono ritrovati in strada, nullatenenti e nullafacenti.
In una disamina non solo della condizione di internato, ma anche della società che circonda questi luoghi di detenzione, e con un occhio critico, attraverso la similitudine con il nostro mondo, sempre più dedito all’economia e al guadagno come primo bastione, ci ritroveremo davanti a scenari difficili da sopportare, ritrovandoci, in parte, corresponsabili del dolore dei prigionieri.
E dopo aver letto la descrizione che viene data del libro si ha un approccio con lo stesso pensando di leggere un libro che parla di lager e all’inizio pare proprio di trovarsi all’interno di un lager ma andando avanti con la lettura si scoprono cose terribili della nostra moderna ed “evoluta” società che dovrebbero farci soffermare a pensare più di un semplice attimo.
In un attimo non esiste più la dignità umana, i diritti e la singola identità personale. La sola soluzione è trovare un lavoro e riuscire a lasciare per sempre questo luogo atroce ed assurdo.
La scrittura è fluida e, come dicevo a inizio articolo, molto cruda ma è questo che rende il libro così toccante.